venerdì 24 maggio 2013

Pillole

Non mi va di scrivere l'ennesima banalità sull'anniversario della strage di Capaci. Io ricorderò questo giorno con dolore ogni volta che mi chiederò se valga la pena morire per l'Italia, e la mia risposta sarà no.

martedì 30 aprile 2013

L'ultima chance


Non sempre i mali vengono per nuocere. Se toccare il fondo serve a risalire, arrivarci tanto vicino da sfiorarlo può essere una buona occasione per dipanare matasse fino a ieri insolvibili. Ci sono voluti due mesi per avere l’unico governo possibile, e questo lasso di tempo è sembrato una eternità, uno spreco ingiustificabile di tempo, di soldi, di credibilità, di possibilità per la ripresa economica e sociale del paese, ed è innegabile che sia stato così, ma, col senno di poi, quanto accaduto in questi sessanta giorni è stato indispensabile a imprimere un'accelerazione storica e a consegnarci una serie di informazioni che risulteranno fondamentali nel rapporto prossimo futuro tra italiani e politica. I nodi sono venuti al pettine.
Lo scontro finale tra l’ottusità della nomenklatura Pd e la realtà è il giusto epilogo di una falsa vittoria bersaniana alle primarie dello scorso autunno. Il partito è letteralmente imploso nell’incapacità del segretario di guardare oltre le caratteristiche più conservatrici di una parte del proprio elettorato: antiriformismo e antiberlusconismo, al punto da spingere l’ala più insofferente del partito alla disobbedienza e al rifiuto di votare compatti il presidente della Repubblica indicati dallo stesso Bersani. Marini prima, che non aveva speranze essendo stato un nome concordato con quel Pdl sulle cui ipotesi di alleanze il Pd ha fatto muro dal giorno dopo le elezioni, ed è impossibile convincere dalla sera alla mattina persino i tuoi stessi fedelissimi a mangiare nel piatto in cui hai a lungo sputato. E Prodi poi, la cui candidatura è stata una follia assoluta in un momento storico in cui più che mai era necessario unire il paese, e chi credeva che il professore fosse inviso soltanto all’elettorato del centrodestra ha avuto una di quelle sorprese che portano alle dimissioni. E’ stato un percorso esplosivo quello che ha portato alla riconferma di Giorgio Napolitano, un anziano signore che in un momento di buio assoluto si è alzato in piedi e ha fatto uno di quei discorsi che nella storia politica e istituzionale di un paese lascia il segno.
Se il governo Letta avrà successo gli italiani dovranno ringraziare in ginocchio uno che in gioventù, presumibilmente, ha sperato di vedere l’Armata Rossa marciare su S. Pietro, e che è stato lieto di vederla soffocare la rivoluzione ungherese del 1956, a dimostrazione di cosa possa significare, nella storia di un paese, l’evoluzione umana e politica di un singolo individuo. Questo giovane nemico dell’Occidente è oggi l’uomo politico con il più alto senso delle istituzioni e della democrazia che l’Italia possa vantare, oltre che uno stratega non indifferente. Perché non ha sbagliato un colpo. Non ha incaricato Amato, di cui gli italiani non hanno un bel ricordo, e non ha bruciato Renzi, il quale, davanti a sé, ha letteralmente un compito di portata storica: traghettare definitivamente il Pd verso una piena socialdemocrazia riformista. Costi quel che costi. Ora Enrico Letta, il Pd e il Pdl hanno una grande chance, forse l’ultima. Napolitano ha preteso tre cose: un governo di larghe intese, un governo politico e un governo giovane. Ed è in queste direzioni che il presidente del Consiglio si è mosso. C’è molto da fare. Anzi, è tutto da rifare. Non solo a livello politico, economico e sociale, ma anche civile. I primi sessanta giorni di performance grillina sono infatti la dimostrazione plastica di quanto vent’anni di guerra civile strisciante abbiano imbastardito la cosiddetta società civile.
Nonostante non lo abbia e non lo avrei comunque votato, sono stata personalmente contenta dell’affermazione del M5S alle elezioni; pensavo che una spina nel fianco di una politica incancrenita e sorda ai bisogni reali della normalità sarebbe stata un pungolo formidabile al rinnovamento strutturale dei partiti e del loro rapporto con i cittadini. Pensavo che la società civile fosse mediamente migliore della classe dirigente che la governava, e non condividevo la spocchia di chi bollava le critiche - anche feroci - alla politica come populismo qualunquista. Ero dunque ben disposta nei confronti dei deputati grillini, ma dopo appena due mesi mi rendo conto che la società civile da essi rappresentata è un’accozzaglia di ignoranza istituzionale, pressapochismo, cultura del complotto, mitismo internauta e disprezzo aprioristico dell’homo politicus. Il loro senso della verità e della trasparenza si rimette integralmente alla controinformazione della Rete e ad un Grande Fratello allargato che raramente rende giustizia alla verità. Il tutto poi per prendere comunque ordini e direttive da una singola persona al di fuori del Parlamento.
Ma questo imbarbarimento, che bolla come inciucio anche la sola idea che i due maggiori partiti italiani, usciti praticamente pari dalla sfida elettorale, possano trovare una intesa per far uscire insieme il paese dal rischio del baratro, è figlio di vent’anni di contrapposizione frontale, di odio, di sprezzo, di veti incrociati, dell’idea che gli elettori altrui siano, nella migliore delle ipotesi, figli di un Dio minore. Questo imbarbarimento è figlio dei giornalisti, degli scrittori, degli intellettuali e della classe dirigente che dell’odio politico hanno fatto l’architrave della propria produzione culturale e della propria fortuna. Questo imbarbarimento è figlio della classe politica tutta, che si è chiusa nella torre eburnea dei suoi privilegi e della sua ignoranza, lasciando tanti, troppi italiani come cani stretti in un angolo senza via d’uscita. E in un paese che perde la speranza c’è sempre qualcuno che non ce la fa e impugna una pistola. Questo imbarbarimento deve finire. Queste sono le sfide titaniche che aspettano il governo Letta. Il quale non può e non deve fallire, e al quale molto dovremo se per sbaglio, un domani, ai nostri figli sarà concesso di vivere in un paese normale.

giovedì 7 marzo 2013

Il Pd scherza col fuoco


Alzi la mano chi aveva creduto che nessuno, dopo i risultati elettorali, avrebbe potuto tirare diritto come se nulla fosse, perché il mio braccio è già disteso. Ci sono cascata. Avevo manifestato persino un certo ottimismo perché ritenevo impossibile che i partiti non prendessero atto che il voto ha segnato un punto di non ritorno, un aut aut dal quale dipende integralmente il futuro di questo paese, o – meglio - la possibilità o meno che un futuro ci sia. E invece no.
Uno si sarebbe aspettato che Pier Luigi Bersani, dopo la non vittoria (che nella lingua della società civile si chiama batosta elettorale), da un lato si rendesse disponibile a qualsiasi soluzione per garantire quantomeno un governo di transizione, sistemare quelle tre o quattro cose fondamentali per tornare alle urne, e lanciare un segnale di cambiamento nella vita pubblica e nell’economia; dall’altro, che si dimettesse dal suo ruolo di segretario del Pd per favorire il rinnovamento del partito sapientemente bloccato quando pensava di avere la vittoria in tasca. Non ci vuole un genio della politica per capire che non ci sono più i margini per le chiacchiere e i sofismi; e lui, invece, che cosa fa? Forte del premio di maggioranza di una legge elettorale tanto vituperata quanto prudentemente conservata e adesso oscenamente sfruttata, si mette a lanciare diktat. Per essere uno che non ha mai detto una cosa chiara e tonda durante tutta la campagna elettorale, adesso punta i piedi e scandisce paroloni. Per dire che un accordo di governo con il Pdl non ci sarà mai, e piatire il sostegno di Grillo (che ha insultato, generosamente ricambiato, per mesi e mesi) su un programma di governo di otto punti. Otto punti di cui un paese sull’orlo del baratro, naturalmente, non può fare a meno. Una legge contro la mafia (ma perché, essere mafiosi attualmente è legale?), una contro la corruzione (che può anche essere migliorata ma c’è già), una sul conflitto di interessi (che ci vuole indubbiamente, ma non è la priorità), cittadinanza a oltranza (fondamentale per la ripresa?), diritti alle coppie omosessuali (giustissimo, ma nella situazione attuale non può essere all’apice di un’agenda di governo), diritto allo studio (ammetto di non sapere chi in Italia non ne goda), e interventi per una politica più sobria e per l’emergenza economica e sociale (le uniche cose veramente urgenti, su cui però non è dato sapere di più).
In un momento così delicato, in cui la miccia dell’insofferenza sociale può esplodere da un momento all’altro, il segretario del Pd lancia questo programmino vago e inutile e sfida a sostenerlo quello che fino a ieri era il mostro dell’antipolitica e del populismo pseudo-fascista. Incredibile. Rivendica il suo primato ma passa la palla a Grillo, e si innervosisce pure perché sarebbe il leader del M5S a dover dire cosa voglia fare, altrimenti - minaccia impetuoso - si va tutti a casa. Ma dov’era Bersani mentre Grillo urlava per tutte le piazze italiane – e senza tanti giri di parole – quello che voleva fare? Perché continua a “sfidarlo” quando è ovvio ed è già stato ribadito dieci volte che i grillini non daranno la fiducia ad un eventuale governo Bersani? E d’altronde, come si fa anche solo ad immaginarlo quando è del tutto evidente che i partiti stanno al M5S come un’astronave ad un asteroide in rotta di collisione? Se la prima aggiusta la rotta, il secondo sparisce. Grillo l’incoerenza non se la può permettere, non è nel suo interesse. E’ convinto che un governo di larghe intese soffrirebbe abbastanza la pressione grillina da non osare, ad esempio, eleggere un nuovo presidente della Repubblica che non sia di sufficiente gradimento popolare, ma è anche fiducioso che il Pd e il Pdl finirebbero per logorarsi definitivamente, permettendo al M5S, alle quantomai prossime elezioni, di governare direttamente da soli. E questo è uno scenario che andrebbe molto oltre l’utilità storica della presenza grillina in Parlamento, e per scongiurare il quale era indispensabile che la lezione delle urne venisse capita.
Il Pd sta inanellando una serie di errori che sono potenzialmente letali per l’Italia. Prima il boicottaggio di Renzi, che è stato un utilissimo alibi anche per la ricandidatura di Berlusconi, e ora la smania di governare sapendo di non avere i numeri e gli strumenti adeguati al dramma della situazione attuale. Perché la realtà, incredibilmente, ancora non gli entra in testa. E la realtà è fatta di un paese in cui quindici mesi di dissanguamento economico sono serviti a far aumentare la spesa pubblica del 3% e a prosciugare i risparmi degli italiani. Il tessuto produttivo è ridotto all’osso e invoca disperato un allentamento della tenaglia fiscale, e quello sociale è sull’orlo dell’esplosione perché ha finito i soldi. Siamo alla frutta, e loro fissano le consultazioni a un mese di distanza dal voto. Ma il paese non ce l’ha un mese da spendere dietro ai giochetti di palazzo. Se le ultime speranze verranno deluse, le conseguenze potrebbero essere tali da far apparire la Grecia una prospettiva ineludibile, e questa volta niente e nessuno ne sarebbe risparmiato. Neanche loro.

venerdì 1 marzo 2013

Analisi di un voto


Le elezioni sono andate esattamente come tutti coloro che non seguono i sondaggi avevano previsto: paralisi totale del Parlamento e psicodramma democratico. Ma non si può dire che siano andate poi così male, perché sono una vera e propria lezione di fronte alla quale si aprono solo due possibilità: capirla e trarne le dovute conseguenze, oppure cadere dal ciglio del burrone nel quale ci troviamo e finire nel baratro, ed è giusto che la sordissima classe politica italiana si trovi di fronte a questo aut aut. Intanto il voto ha ristabilito una regola fondamentale della democrazia in cui nessuno credeva più: le urne possono davvero cambiare gli scenari politici, le opinioni e i sentimenti popolari hanno un peso, e bisogna tenerne conto. E’ un’ovvietà che avevamo tutti dimenticato, avvitati come eravamo nella polarizzazione destra/sinistra, Roma vs Lazio, che aveva inutilmente caratterizzato le campagne elettorali dell’ultimo quindicennio, e questo è un indubbio merito della presenza in campo di Monti e Grillo. Il primo perché il suo flop è la riprova che quando sei chiamato a somministrare medicine quasi mortali puoi anche essere considerato un salvatore della patria, a patto però poi di scomparire dalla scena. Perché uno che ha imposto all’Italia il fiscal compact non è credibile quando parla di crescita; perché la sua società civile è fatta di persone lontanissime dalla durezza della vita quotidiana della maggioranza degli italiani, e perché il tipo di Europa incarnata dallo stesso Monti, e dal quale egli è amato – autocratica e autoreferenziale – non è né sentita né amata dagli italiani. Su Grillo c’è poco da dire. Ha costruito un partito sull’insofferenza e lo scontento, sì, ma poi lo ha strutturato, lo ha dotato di un programma (credibile o meno è un altro discorso), e lo ha portato ad essere il primo partito italiano. Alla faccia di chi lo ha sfottuto fino all’altro ieri; alla faccia di chi gridava all’antipolitica e riduceva l’impresa grillina alle invettive del comico genovese. A prescindere da quello che faranno ora i deputati del M5S, la positività dell’ingresso nelle istituzioni di tante persone comuni, nuove, non avvezze alle regole dei palazzi romani, è enorme. E’ la dimostrazione che quello che la classe dirigente chiama spregiativamente populismo e antipolitica non è altro che legittimo scontento saputo diventare proposta politica, rinnovamento. Non c’è spauracchio che abbia tenuto. Certo, ora tutto dipenderà dalla coerenza che il partito saprà dimostrare nell’attività parlamentare; dopo simili aspettative una grande delusione non sarebbe sopportata, e un movimento con eletti e personalità piuttosto eterogenei forse non potrebbe sopravvivere.
Altro discorso il Pd e il Pdl. Alla sinistra è rimasta una unica certezza: quando si tratta di perdere non la batte nessuno. Perché? Perché rifiuta caparbiamente di diventare un partito socialdemocratico, anche quando ne ha la possibilità. Un partito che scarta il suo jolly per il cambiamento e si chiude a guscio nell’angusto perimetro di Sel e della Cgil è un partito che non vuole capire che questo paese non è di sinistra. Non di questa sinistra. Ma c’è un capolinea anche per i più ottusi, e il rinnovamento non sarà più rinviabile. E’ un’ottima notizia. Lo stesso vale per il Pdl. Gongolamenti a parte per il grande recupero, l’emorragia di voti è da coma e la rivoluzione interna non più rinviabile. E’ realistico ritenere che Berlusconi abbia fatto la sua ultima, straordinaria campagna elettorale. Soprattutto perché il suo scopo non era tanto vincere, quando ribaltare il ricordo che l’Italia avrebbe avuto di lui: non l’uomo finito e ridotto a dimettersi di un anno e mezzo fa, ma il grande combattente, lo stratega politico in grado di smobilitare, ancora una volta, milioni di voti. Nessuno, neanche chi proprio non sopporta più nemmeno di vederlo, potrà parlare di lui in termini diversi, ma la prossima volta toccherà per forza a un altro, e anche questa è un’ottima notizia.
Un discorso a parte merita Fare per Fermare il Declino, l’altra grande novità di queste elezioni. Un movimento nato intorno ad un manifesto di idee e principi divulgato lo scorso luglio; un programma politico di altissimo livello scritto e pensato da illustri professionisti, un partito sceso ufficialmente in campo l’8 dicembre, migliaia di volontari improvvisamente riappassionatisi alla politica, e un leader preparatissimo, carismatico, estroso, diverso. Fare aveva tutto per sfondare. Anche i numeri. Poi, il fattaccio. Sul quale è superfluo tornare, perché il punto vero è la gestione del fattaccio. Giannino ha ammesso le sue colpe, si è dimesso, ha seguito la conclusione della campagna elettorale dalla prima fila, sotto il palco, e poi è sparito. Persino le sue foto dal sito sono state rimosse. Poteva fare più di così in omaggio ai principi di onestà e trasparenza da lui stesso propugnati? Non credo. E gli altri? I professori, la dirigenza? Hanno pensato che la cosa migliore fosse staccare la creatura dal suo creatore, che mollare in massa e deputazione Giannino avrebbe salvaguardato il pacchetto di voti, e hanno mandato al macello una ottima persona, ma del tutto sconosciuta, che ha fatto quello che poteva perché i “big” si sono tirati tutti indietro. Risultato? Un disastro. Un disastro di cui nessuno si vuole prendere la responsabilità, che ha innescato il fuggi fuggi generale (e d’altronde quando la barca affonda i topi scappano) e uno straccio di vesti ottimamente veicolato via social network. Complimenti davvero. Non hanno nemmeno bisogno di nemici politici perché si suicidano benissimo da soli. Forse fare quadrato intorno alla persona che più di tutte ci aveva messo la faccia, i soldi, il tempo e le rinunce professionali, pur facendogli ammettere le sue colpe e accettando le sue dimissioni, avrebbe prodotto un risultato diverso; forse la vanità, l’egocentrismo e le manie di protagonismo non affliggevano tanto Giannino quanto altri fondatori; forse un bel confronto aperto e teso a far venire a galla la verità se lo dovevano fare prima e a porte chiuse. Forse.
E ora? Ora speriamo che Grillo sia coerente con se stesso e non appoggi un governo Bersani, che si riesca ad ottenere un governo di scopo atto esclusivamente a cambiare la legge elettorale e ad eleggere un capo dello Stato per forza diverso dai nomi che circolavano fino a tre giorni fa, e con un po’ di fortuna tra un anno avremo le prime, vere, elezioni della terza repubblica.

martedì 12 febbraio 2013

Fare fa sul serio


Anticonformista, eclettico e particolare anche nella scelta dei nomi. E’ il primo grande incontro degli aderenti e dei simpatizzanti di Fare per Fermare il Declino, e lui lo chiama AntiMeeting. Forse perché il presupposto è sfatare tutti i luoghi comuni della vecchia politica, come quello del voto utile, secondo cui l’elettorato italiano dovrebbe continuare a scegliere secondo lo schema calcistico della Roma contro la Lazio, e prediligere uno dei grandi partiti semplicemente per evitare che sia l’altro a vincere le elezioni. Ma lui questa visione manichea la rifiuta integralmente, spiegando che tutte le grandi cose, in Italia, sono nate da un manipolo di persone che ad un certo punto hanno detto basta. Risorgimento ed Unità d’Italia compresi. Le premesse dunque c’erano e l’evento, infatti, è notevole, l’organizzazione impressionante per un movimento che è ufficialmente sceso in campo lo scorso 8 dicembre, i personaggi, gli interventi, i temi, il format stesso, tutto oggettivamente innovativo e di alto livello. L’entusiasmo dei presenti e della Rete c’è e si vede. Chi non è fisicamente presente ascolta gli interventi in streaming e twitta incessantemente, e lui, l’ultimo dei dandy, il signore degli anelli (glieli invidio tutti) sale più volte sul palco e infiamma letteralmente la platea.
Sembra sceso da una tela del Diciannovesimo secolo, Oscar Giannino, ma in comune con il decadentismo della fine dell’ 800, in realtà, ha solo l’eccentricità di un abbigliamento che porta comunque con innegabile classe, mentre, quando parla, il più competente giornalista economico italiano sembra arrivare direttamente dal futuro. Con una visione a 360 gradi e un’idea di come dovrebbe essere l’Italia da qui ai prossimi dieci anni, accompagnato e coadiuvato da una pletora di economisti e professionisti di indubbio valore e di differenti inclinazioni, l’AntiMeeting di Giannino è una giornata all’insegna di un ricco dibattito programmatico. E il programma - chiaro, concreto, possibile e non trattabile – è ciò che ha chiamato a raccolta migliaia di persone difficili da inserire in una unica categoria. Non ci sono solo i delusi del centrodestra; l’argomentazione di Berlusconi secondo cui Fare per Fermare il Declino toglie voti al Pdl è parziale e fuorviante. Ci sono anche molti aspiranti renziani, i delusi di un centrosinistra che ha imposto vecchie idee, vecchia nomenklatura e vecchie alleanze alle ambizioni riformiste di una parte pure non irrilevante del suo elettorato. Ci sono, in una parola, migliaia di persone che a queste elezioni, forse per la prima volta, non avrebbero votato, persone che sarebbero andate ad ingrossare le fila del primo partito italiano, quello degli astenuti.
Ma cos’è che piace tanto del programma di Fare? I numeri, innanzitutto. Quelli che spiegano a quanto ammonti e di cosa sia fatta la spesa pubblica. 800mld di euro - non si stanca di ripetere Giannino - di cui l’apparato burocratico dello Stato consuma il 51%, mentre solo un terzo del rimanente 49% è speso per il welfare (sanità e pensioni). I margini per tagliare gli sprechi, dunque, ci sono, ed anche solo agendo sulle impressionanti e ingiustificate differenze di spesa tra le Regioni per le forniture, per fare un esempio, sanitarie, si otterrebbero risparmi dell’ordine di miliardi. Ma non è solo un’operazione matematica, è un fatto culturale. Il leitmotiv del programma di Fare è un caposaldo del liberalismo classico: fuori la politica dalle attività economiche (banche e fondazioni che le controllano, infarcite di politici, sono solo un esempio), basta alla proliferazione di enti pubblici, società e imprese infiltrate e controllate dalla politica, basta al dirigismo, all’invadenza, all’oppressione statale. E basta imposte. Come ha spiegato anche Francesco Giavazzi in videoconferenza, per tornare a crescere non esiste altra ricetta che più mercato e meno tasse. Ma quali sarebbe possibile e necessario abbassare? Cuneo fiscale e Irap per far ripartire le imprese, tanto per cominciare, e l’introduzione di una novità che Giannino chiama egualitarismo verticale: per favorire l’ingresso di giovani e donne nel mercato del lavoro, si può attuare una tassazione differenziata, da alzare progressivamente con la crescita della capacità contributiva. In questo modo le entrate erariali sarebbero garantite e invariate, seppur spalmate nell’arco della vita lavorativa, mentre il vantaggio sarebbe immediato. Ci sono poi le proposte sulla trasparenza (perché non far sentire via internet i consigli dei ministri?), le privatizzazioni (Rai e non solo) che però, come spiega Carlo Stagnaro, non si possono attuare senza portare prima a termine le liberalizzazioni (energia e trasporti, ad esempio), il rapporto tra Stato e imprese, la famiglia come soggetto tributario, il merito e la concorrenza, la sussidiarietà, il rapporto tra pubblico e privato. Ma il programma di Fare non è solo un manuale di economia. All’AntiMeeting parlano economisti, imprenditori, giornalisti, ricercatori, uomini di scienza e di cultura, candidati, persone comuni. Tutti accomunati dal filo conduttore di una visione liberale della società che nella politica italiana, chiacchiere a parte, non ha mai prevalso; tutti a spiegare che cosa significa, nella vita reale e in termini di costi, l’oppressione burocratica e l’invadenza politica dello Stato. Vale per tutto: giustizia, famiglia, scienza, sanità, società.
A chiudere la giornata lui, il leader insospettabilmente carismatico, che impronta il suo intervento finale su una domanda sostanziale: perché gli indecisi dovrebbero fidarsi di Fare? Oscar Giannino è consapevole della sfiducia e della stanchezza degli elettori nei confronti delle promesse dei partiti, e pensa a qualcosa di concreto per differenziarsi; informa così la platea che il movimento si è dotato di un collegio di garanti esterno, composto da figure di alto livello professionale, che giudicheranno l’operato del partito, per iscritto, una volta l’anno, e lancia due proposte: cambiare la regola costituzionale del mancato vincolo di rappresentanza, che è causa della transumanza dei parlamentari da un partito all’altro, e inserire nel futuro statuto di Fare una norma per la quale, in caso di incoerenza grave di un eletto, tutti gli aderenti del movimento, nel pieno rispetto delle leggi, hanno il diritto di attuare una moral suasion fino al conseguimento della lettera di dimissioni del “traditore”. Una boutade? A giudicare dalla serietà del clima in sala c’è da crederci. Qualcuno ha deciso di fare sul serio.

mercoledì 30 gennaio 2013

Una campagna elettorale... da paura


Girare e parlare con la gente. Facile. Per capire quale sia l’attuale realtà italiana alla vigilia di elezioni politiche delicatissime come quelle del 24 e 25 febbraio, basterebbe entrare in qualche negozio e fare qualche domanda. Sempre che il negozio in questione ci sia ancora. Chiunque può misurare la febbre del paese in questi giorni. Bisogna solo guardarsi intorno. Enormi centri commerciali aperti tre anni fa in pompa magna ridotti a bunker di cemento dove sopravvivono un negozio o due, magari un Mc Donald’s e una caffetteria, con buona pace di investimenti milionari andati in fumo per mancato guadagno, impossibilità di pagare le spese, o perché, più sinteticamente, il gioco non vale la candela. Chiudono persino le pizzerie al taglio, fino a poco tempo fa considerate miniere d’oro, e vendere un’attività - magari per ripianare i debiti contratti con le banche per aprire - in questo momento è semplicemente impossibile. Parola del giovane, nuovo parrucchiere che ha perso il lavoro dopo la chiusura dell’importante salone per il quale lavorava, e si è messo in proprio un paio di mesi fa. Come? Con i soldi di papà, ovviamente, perché la banca credito non ne fa a nessuno, nemmeno a un giovane con oltre dieci anni di lavoro alle spalle e dei risparmi da investire in una propria attività. Niente da fare.
Il dato secondo cui chiudono circa mille imprese al giorno è palpabile, visibile, fisico. E le ragioni di questa “carneficina” sono talmente evidenti da lasciare molto perplessi sulla possibilità di una ripresa nei prossimi mesi. Pesa, su qualsiasi speranza per il futuro prossimo, l’incubo di una campagna elettorale da paura. Nel vero senso della parola. E’ difficile persino districarsi mentalmente nella foresta dell’offerta politica in campo. Da un lato, purtroppo, la storia che si ripete da vent’anni: Berlusconi, la sinistra e le reciproche alleanze; dall’altra, il nuovo che di nuovo non ha più nulla: Monti e la coalizione di centro che lo sostiene. Nuovo in effetti Monti lo era, un anno fa. Per questo le aspettative nei suoi confronti erano enormi, ma buona parte di quel credito si è consumata nella ritrovata credibilità internazionale dell’Italia, che è un merito indiscutibile della persona, oltre che del ruolo e dei rapporti ricoperti e coltivati precedentemente in Europa, mentre il resto è andato in fumo con una discesa (o salita, fate voi) in campo sponsorizzata da due degli elementi più conservatori e meno riformisti di sempre della politica italiana: Fini e Casini. Il primo ancora alla ricerca del suo posto nel mondo, il secondo dedito da almeno sei anni alla tessitura del grande centro, convinto di aver finalmente trovato il cavallo e lo sponsor giusti per varare la nave: Monti e Montezemolo. Sarebbe questa la novità delle prossime elezioni, la società civile che si presta alla politica per il cambiamento, e che per tale nobile scopo è pronta ad allearsi con tutti, come il buon Casini insegna da tempo. Proprio Monti, infatti, che da settimane addossa ora al Pd, ora al Pdl, la responsabilità degli scarsi risultati del suo governo, riferendosi una volta alla mancata volontà della sinistra di portare la riforma del lavoro fino in fondo, un’altra alla paternità della destra dell’odiosa Imu e del cretinissimo redditometro, evitando tuttavia di spiegare perché ci siamo sciroppati un anno di governo tecnico se le decisioni da prendere le aveva già prese il governo precedente, e se il blocco politico e sindacale meno incline alle riforme si è ugualmente imposto, è ora disponibile ad allearsi tanto con il Pd (senza Vendola) quanto con il Pdl (senza Berlusconi). Per fare cosa, poi, una volta arrivati a Palazzo Chigi? Mistero della fede. I contenuti, infatti sono i grandi assenti di tutta la campagna elettorale. Certo, si parla di tasse ed economia, le note più dolenti in questo momento in Italia, ma tutto finisce in vaghe promesse e accuse reciproche. Perché nessuno dei tre leader delle maggiori formazioni politiche è credibile. Non Berlusconi, al quale è lecito chiedere perché dovrebbe realizzare con un nuovo esecutivo quello che non ha fatto nelle precedenti esperienze governative; non Monti, che, nonostante un Parlamento sotto lo scacco dell’emergenza, e un governo esonerato dal giudizio elettorale, ha scelto la strada a tempo determinato dell’impoverimento per il risanamento, ed ora non si capisce perché, con una eventuale maggioranza certamente meno ampia della precedente, dovrebbe prediligere politiche nettamente diverse. Ma anche Bersani è poco credibile. Dopo aver combattuto contro l’unica ventata di riformismo e rinnovamento che si fosse vista in Italia da anni, Matteo Renzi, aver riaffermato il primato della nomenklatura e della tradizione di partito assicurando ai peggiori nemici del sindaco di Firenze l’ennesimo seggio in Parlamento, ed aver scelto l’alleanza alla sinistra del Pd, non si vede proprio in che modo il leader dei democratici potrebbe tenere insieme, in un eventuale governo, le istanze di Sel e della Cgil con la promessa coerenza all’azione del governo Monti e ai vincoli europei. Per non parlare naturalmente di tutto il resto. Quel resto fatto di politica estera, sicurezza, giustizia, società civile, Unione Europea, visione di sé e del proprio ruolo nel mondo. Tutte bazzecole scientemente escluse dal dibattito di una campagna elettorale da paura.

martedì 22 gennaio 2013

L'Europa, questa sconosciuta

Sono trascorsi ventitré anni dalla caduta del Muro di Berlino. Era il 9 novembre 1989, io avevo quindici anni e tante cose su quella storia, sul comunismo e sulla seconda guerra mondiale ancora non le sapevo, ma le sensazioni, la gioia, la bellezza di quel giorno le ricordo benissimo. Un’epoca si chiudeva per sempre e tutto sembrava possibile. L’Occidente, i suoi valori, il suo modello filosofico, giuridico e comportamentale aveva vinto e si sarebbe diffuso senza incontrare ulteriori ostacoli. Avevamo vissuto per decenni sapendo quale fosse il bene e il male, chi fossero gli amici e i nemici, ciò in cui credevamo e ciò che dovevamo combattere. Avevamo delle certezze, delle convinzioni radicate, una certa consapevolezza di noi stessi, ed era paradossalmente tutto più semplice. Era bello sapere da che parte stare potendola anche criticare e contestare; era bella L’Europa che si poteva solo immaginare, era bello avere un sogno da realizzare.
Ora tutto questo è finito. Gli ultimi venti anni di storia mondiale si sono portati via molto più dell’ottimismo - forse superficiale - di chi ha creduto che bastasse sconfiggere il comunismo sovietico per spianare la strada alle conquiste economiche e sociali dell’Occidente. Ora sappiamo che il mercato, da solo, non produce automaticamente democrazia, progresso, diritti, ed abbiamo anzi dovuto imparare che ci si può trasformare in una superpotenza economica quanto politicamente e socialmente arcaica grazie al capitalismo di stato ed ai suoi schiavi. Ora sappiamo che la finanza può benissimo non essere un portato del libero mercato, una proiezione dell’economia reale, ma un mondo astratto con una vita propria e proprie esclusive regole, in grado tuttavia di determinare la bancarotta di interi paesi. Ora sappiamo che una moneta comune non fa di un gruppo di paesi una unione politica di stati, e sappiamo anche che i comunisti erano i migliori nemici che potessimo avere, i più razionali e ragionevoli, gente che governava col terrore ma non avrebbe mai fatto del terrorismo un’arma di distruzione di massa. Ma soprattutto, ora sappiamo che a fare la differenza non è mai l’entità della forza della minaccia che incombe su di noi, quanto la nostra intrinseca debolezza, la manifesta incapacità politica e culturale in cui da tempo è piombato il Vecchio Continente. Perché? Perché non abbiamo saputo portare a compimento un progetto che è stato pensato quando davvero sembrava impossibile, quando le macerie della seconda guerra mondiale fumavano ancora? Quanto corrisponde l’Europa ideata dagli uomini che a pochi anni dalla fine del conflitto hanno saputo stringersi la mano e lasciarsi alle spalle l’odio, il rancore, la vendetta, il dolore - come i giovani italiani, francesi, inglesi e tedeschi che invece di spararsi addosso si ritrovarono insieme a sognare negli ostelli e per le strade delle capitali europee – a quella in cui viviamo oggi?
Troppo poco. Perché quegli uomini e quei giovani volevano molto più di un mercato unico e di una moneta comune. Volevano un insieme di principi e valori universali da rappresentare, diffondere e difendere, e volevano un obiettivo comune, una unione di stati che guardasse nella stessa direzione e costituisse un esempio di civiltà e progresso. Loro appartenevano a quella generazione di statisti che pensavano ed agivano a lungo termine, non solo in prospettiva delle rielezione. E forse il problema è solo questo. Gli uomini. I leader europei che si sono susseguiti alla guida dei propri stati e delle istituzioni dell’Unione da almeno due decenni a questa parte. Se fossero stati all’altezza a quest’ora i cittadini europei avrebbero una Costituzione, un Parlamento democraticamente eletto - e non una Commissione – a fondamento del processo legislativo e decisionale, una Banca centrale legittimata a difendere gli stati membri dagli attacchi della speculazione finanziaria, una politica estera comune e molto altro. 
Invece si ritrovano senza una Carta fondante, ancora praticamente all’oscuro dei meccanismi decisionali delle istituzioni europee, reciprocamente sospettosi sulle responsabilità di determinati stati membri riguardo la crisi e la speculazione finanziaria, impotenti di fronte alla manifesta incapacità dei propri leader di trovare una strada comune per fronteggiare qualsiasi emergenza, da quella economica a quelle internazionali, inesorabilmente divisi dalla rapidità e irrazionalità del processo integrativo con i paesi che fino a vent’anni fa facevano parte del blocco sovietico, e sostanzialmente sfiduciati riguardo il futuro e le prospettive dell’Unione. Bel risultato. Alla cui responsabilità nessuno può sottrarsi. Non la Germania e la Francia, che non hanno voluto rinunciare a primeggiare, economicamente e politicamente, al contempo però disinteressandosi, ad esempio, delle conseguenze inevitabili dell’ingresso indiscriminato di paesi economicamente e socialmente arretrati, salvo poi imporre, oggi che quelle conseguenze si sono materializzate, la loro personale visione di exit strategy. Non certo l’Italia, che ha smaniato per entrare nell’euro tra i primi quando verosimilmente non vi erano ancora le condizioni necessarie per farlo, e non si è preoccupata di attuare le riforme coerenti ai patti e agli accordi firmati in Europa, quelle mancate riforme che oggi avrebbero protetto il nostro debito dalla speculazione e dal disonore. Non certo la Grecia, la Spagna e tutti quei paesi che hanno guardato all’Europa non come un progetto comune alla cui realizzazione contribuire dinamicamente, ma come una manna dal cielo su cui scaricare sprechi e inefficienze interne. 
Nessuno è innocente. E se oggi piangiamo e soffriamo la crisi come non accadeva dalla seconda guerra mondiale, è perché non abbiamo costruito un senso comune dell’essere europeo; perché non condividiamo davvero gli stessi valori, la stessa idea di democrazia, di economia, di progresso, di ruolo nel mondo. Ecco perché non abbiamo una Costituzione e nessuno solleva un problema a riguardo. Perché c’è ancora un lunghissimo lavoro propedeutico per arrivarci, solo che il tempo è tiranno e di grandi uomini in grado di capire, incarnare e animare un nuovo spirito europeo, purtroppo non se ne vedono.